Un viaggio ai confini del nulla

Quel che devi ai tuoi genitori

L’ironia della condizione dell’uomo è che il suo bisogno più profondo è di essere libero dall’ansia della morte e dell’annientamento; ma è la vita stessa che la risveglia, e così deve ritirarsi dall’essere pienamente vivo.

Ernest Becker

Nella vita di ciascuno di noi capitano momenti d’impotenza, avvenimenti e circostanze che ci inducono stati di sofferenza e di disagio. Quando ci confrontiamo, in particolare, con il lutto e la morte, le difficoltà che troviamo nel dare un senso a ciò che accade finisce per immobilizzarci dalla paura.

Eppure, la morte è l’unica certezza che abbiamo in vita. Tutti gli organismi viventi muoiono, senza eccezione alcuna.

D’altronde, noi esseri umani siamo gli unici a possedere le capacità cognitive che ci rendono consapevoli, in grado di riflettere sulla vita e sulla morte. E se queste capacità sono il dono più grande che abbiamo, rappresentano anche la nostra più grande condanna; sapere di essere vivi e per questo di poter morire, ci comporta un’ansia esistenziale fondata su una sola paura, quella di non esistere.

C’è qualcosa dopo la morte?

Che cosa mi succederà?

Sarà tutto finito per me?

Quando ci troviamo a fare i conti con la fine, tutto il resto appare insignificante e il suo impatto è tanto forte che preferiamo fingere che non sia reale. Infatti, nella nostra società viviamo nella sua negazione; ci insegnano a bisbigliare in sua presenza, a voltare lo sguardo dall’altra parte per non sentirci ansiosi e depressi.

Tuttavia, negare la morte porta conseguenze negative per ognuno di noi, arrischiandoci in stili di vita privi di significato, autenticità e vitalità, nell’illusione di essere intoccabili, nonostante la consapevolezza cosciente del fatto che non sia così.

La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà continuiamo a essere ancora presenti come spettatori. Perciò la scuola psicoanalitica ha potuto anche affermare che non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte o, ciò che equivale, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità. Sigmund Freud

Nel nostro inconscio la morte non esiste; l’uomo si vive come immortale e quando giunge il suo momento, è sempre a causa di un “infatuo destino”.

I credi religiosi, le relazioni fusionali, le fantasie di onnipotenza e la vanità sono solo alcuni degli aspetti che possono aiutarci a sostenere questa illusione, mentre le circostanze di vita cercano di metterci di fronte alla realtà.

E’ con la realtà, infatti, che non vogliamo fare i conti e così, fuggiamo dall’idea di non poter vivere per sempre. Ma fuggire dalla morte significa sfumarsi in un angolo lontano della coscienza e vivere la vita in uno stato di sonno profondo.

Senza la morte la vita perderebbe di significato, letteralmente.

La religione, ad esempio, offre il conforto di una promessa di un qualcosa dopo la morte, un’altra vita. Ma quando credenze, usi e costumi vengono messi in discussione, ci chiudiamo sempre più dietro alle nostre difese, rischiando di cadere in comportamenti ostili e aggressivi (1).

La Teoria psicologica della Gestione del Terrore (1) affonda le sue radici proprio in questa caducità, fonte di un’angoscia esistenziale gestibile solo attraverso i significati della cultura che danno continuità alla nostra esistenza. In quest’ottica, l’istinto di proteggere il nostro sistema culturale è utile ad accrescere il nostro senso di sicurezza e autostima e questo si fa ancora più forte quando siamo messi di fronte alla nostra mortalità e finiamo per cadere nel bisogno di aggrapparci alle norme del gruppo di appartenenza chiudendoci verso il diverso.

Dunque, ci sentiamo minacciati dalla morte e tentiamo di difenderci cercando sicurezza e significato dove non c’è, recitando la parte dei nazionalisti e dei materialisti, aderendo più o meno rigidamente ai valori della nostra cultura. La Teoria della Gestione del Terrore suggerisce, inoltre, che gran parte del nostro comportamento venga da questa angoscia, che ci trascina in una spirale di distruttività individuale e collettiva(2).

Alcuni autori (3) sostengono che ciò contribuisca, ad esempio, alle guerre e ai conflitti politici.

Nella nostra cultura avviene un “confronto traumatico col tabù della morte in una realtà sociale tutta rivolta al consumo della vita”(4), dove la nostra società non è più caratterizzata dal tabù del sesso, ma da quello della morte. Inoltre, la sofferenza derivante dal vivere un’esistenza apparentemente priva di significato, si somma a quella derivante dal non riuscire a trovare un senso alla malattia e al dolore (5).

Senza sofferenza e morte la vita umana non può essere completa.

Viktor Emil Frankl

Nella nostra società, nel migliore dei casi, la morte si limita a essere pensata come mero evento biologico, perdendo il suo valore esistenziale, ad di là della vita.

Allora, vogliamo vivere per l’eternità, ma non possiamo e ciò è talmente intollerabile che portiamo avanti comportamenti distruttivi per distrarci e per distaccarci da questo tormento, per sentirci insensibili di fronte alla vita e a noi stessi, dimenticando i nostri desideri, i nostri sogni, la nostra volontà e tutto ciò che ci fa sentire presenti, consumandoci giorno per giorno.

Molte persone passano la vita addormentati in una routine priva di reale valore e significato, deprivati di quello che è il nostro retaggio umano.

Riconoscere che siamo finiti e non particolarmente entusiasti di questa prospettiva, è liberarci momentaneamente di tutti i deliri culturali, interpersonali e quei legami illusori che ci hanno sostenuto tutta la vita. E non possiamo farlo senza affacciarci sull’orlo del precipizio. Ma solo e solamente allora, il reale nocciolo di chi e che cosa siamo può iniziare a emergere ed è questo il momento in cui inizieremo a vedere gli altri e noi stessi al meglio. Sheldon Solomon

Quando la morte non è negata ma riconosciuta, possiamo usare ciò che questo riconoscimento comporta per promuovere pace e compassione, nell’ottica in cui tutti noi esseri umani viaggiamo sulla stessa barca -una che affonda-, per promuovere un senso di uguaglianza e solidarietà.

Testimonianze di persone che hanno rischiato la vita a causa di cancro, attacchi di cuore o incidenti, raccontano di come venire a patti con la morte li abbia portati a vedere le cose da una diversa prospettiva (6).

Accentando la morte, hanno potuto prendere reale coscienza del fatto che il passato e il futuro non sono importanti e che la vita accade solamente nel momento presente. Hanno sviluppato gratitudine per tutto ciò che prima appariva loro scontato.

Hanno spostato l’attenzione da loro stessi, da quelli che prima percepivano come problemi –eventi passati d’imbarazzo, l’ansia di piacere agli altri, la compulsiva ricerca di successo- a una visione più ampia, più altruistica, meno materialista ed egocentrica (6).

Il mondo diventa un luogo reale, avvolgente e bellissimo.

Condividiamo tutti lo stesso fato e le stesse paure, capire questo potrebbe renderci più uniti soprattutto nelle differenze e nei limiti.

La paura della nostra mortalità può farci chiudere gli occhi di fronte alla vita, proprio come un bambino si nasconde sotto il letto dal buio, e farci vivere meno pienamente per non soffrire, per non dover sperimentare il dolore di ciò che inevitabilmente andremo a perdere. L’ansia che proviamo potrebbe spingerci alla resa di ciò che più ci connette a noi stessi, di ciò che potrebbe farci sentire completi, finendo per smarrirlo.

Allora, potremmo abbracciare la nostra mortalità per permetterci di fare l’opposto; di ispirarci a vivere la nostra vita perseguendo tutto ciò che per noi è denso di significato. I nostri sogni e desideri, tutti gli ostacoli che superiamo e le vette che raggiungiamo, la possibilità di costruire relazioni autentiche e profonde, agendo da protagonisti guidati dalla speranza e non subendo come spettatori nascosti nella paura.

Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, né per i vivi né per i morti; perchè quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. Epicuro 

(1)Pyszczynski, T., Greenberg, J., & Solomon, S. (2002). In the wake of 9=11: The psychology of terror. Washington, DC: American Psychological Association.

(2)Pyszczynski, T., Greenberg, J., Solomon, S., Arndt, J., & Shimel, J. (2004). Why do people need self-esteem? A theoretical and empirical review. Psychological Bulletin, 130, 535–468.

(3)Pyszczynski, T., Greenberg, J., Solomon, S., & Maxfield, M. (2006). On the unique psychological import of the human awareness of mortality: Themes and variations. Psychological Inquiry, 17, 328–356.

(4)Ancona L. “Qualità di vita e qualità di morte”. Pinkus L. , Filiberti A. (a cura di). La qualità della morte. Franco Angeli, Editore, 2002.

(5)Frankl, V. E. (1963). (I. Lasch, Trans.) Man’s Search for Meaning: An Introduction to Logotherapy. New York: Washington Square Press.

(6) Taylor, S. (2011). Out of the Darkness: From Turmoil to Transformation. Hay House UK Ltd, London.

Freud S. (1915), Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Parte IIa, Il nostro modo di considerare la morte, Opere Complete VIII, Torino: Boringhieri, 1976: 137.

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