L’importanza del problema

L’importanza del problema
Il dolore è un grande maestro, però nessuno vuole essere il suo discepolo.
Hasier Agirre

La scorsa settimana mi sono ritrovata con un brutto mal di denti; ho preso il telefono e ho chiamato il dentista sperando che potesse ricevermi al più presto. Per fortuna, ha subito trovato uno spazio per me e così, nell’arco della giornata, ho risolto l’inconveniente; il dolore è sparito, lasciandomi un vago indolenzimento che sapevo sarebbe passato in un paio di giorni.

Tutto bene quindi.

Ma che cosa sarebbe successo se non mi fossi presa cura del mal di denti? Avrei potuto pensare che il mio dolore fosse sciocco, insensato e privo di valore, tanto da decidere di non prestargli alcuna attenzione.

Sappiamo tutti, purtroppo, quanto può far male un dente; immaginiamo, quindi, quanto avrebbe potuto rivelarsi controproducente convincermi di non dover/poter fare nulla al riguardo. Il dolore sarebbe aumentato espandendosi dal dente a tutta la bocca, al viso, alla testa; fino a che, probabilmente, sarebbe diventato per me impossibile mangiare, dormire e svolgere le mie altre attività quotidiane.

Fin qui, penso che siamo tutti d’accordo; sarebbe stato insensato non fare nulla al riguardo. Ma quando, invece, il nostro dolore è di natura diversa?

Quando il nostro è un dolore emotivo, riusciamo a ragionare allo stesso modo?

Come per un mal di denti, infatti, il dolore emotivo è lì per dirci che abbiamo bisogno di occuparci di ciò che ci fa stare male, per poter capire e risolvere la situazione. Infatti, il dolore richiama la nostra attenzione al fine di motivarci a guarire, riparare, migliorare e se non faremo nulla al riguardo, esso non potrà che aumentare ed espandersi.

Eppure, quando proviamo disagio e dolore dentro di noi, quante volte ci ritroviamo a far finta di nulla? Quante volte ci convinciamo che questo dolore non sia importante?

Come per il corpo, un dolore psicologico è prima localizzato, ad esempio in forma di colpa, vergogna, paura verso qualcosa di specifico. Quando il dolore emotivo diventa generalizzato, sembra che riguardi la nostra persona completamente; più la sofferenza si espande, più tutto il nostro mondo ci gira intorno. A volte, finiamo per identificarci con quello che proviamo arrivando a sentire che, in conclusione, il problema siamo proprio noi.

Del resto, se io non avessi correttamente riconosciuto il mio dolore, non avrei neppure saputo che farmene. Allo stesso modo, se non ci conosciamo abbastanza, non ci mettiamo nella posizione di poter riconoscere e prendere sul serio ciò che sperimentiamo.

“Mi sento triste, ma non so perché. In realtà, non mi manca niente, quindi non c’è motivo di sentirmi così. Sono una stupida.”

Quante volte ho sentito le persone rivolgersi in questo modo nei confronti del dolore che stavano sperimentando; per quanto potessero cercare di convincersi dell’insensatezza del loro vissuto, questo però non rinuncia a farsi sentire finché la persona non inizia a prendersene cura.

Ad essere onesti, le persone in situazioni simili di solito provano ad auto curarsi in qualche modo, ma magari non arrivano a prendere sul serio il problema finché non ne sono proprio costrette. Spesso, finiscono per abituarsi a convivere con una certa irrequietezza e con una mente negativa, credendo che la famosa felicità e una vita davvero soddisfacente non siano nient’altro che belle favole.

Ma non è così.

Nonostante le incredibili acrobazie che riusciamo a compiere al fine di raccontarci impeccabili storie sul perché non dovremmo sentirci come ci sentiamo, in realtà, quello che stiamo vivendo non può semplicemente sparire (come non potrebbe farlo il mal di denti, nonostante possiamo convincerci per giorni di non averlo).

Diciamo alla nostra mente “Hey, mente, guarda qui. Ti sbagli, non devi sentirti così perché non ne hai motivo”. Ma questa non può darci retta, perché invece il dolore c’è, anche se non riusciamo a dargli un chiaro perché e/o un nome.

Pensate agli effetti di questa strategia; ha mai funzionato? Quando vi dite che non dovete provare gelosia per la promozione del vostro collega, ci riuscite? Quando spiegate alla vostra mente che non ha senso avere paura di confrontare qualcuno, smettete di sentirvi spaventati? Se ripensate a brutti ricordi riuscite a dimenticarli pensando ad altri più positivi? Se imponete alla vostra mente di smettere di rimuginare ancora e ancora sulla stessa cosa, essa semplicemente obbedisce?

Probabilmente no. Se così fosse potremmo affermare che una semplice spiegazione logica possa far sparire un’intricata rete di sentimenti e il nostro mondo emotivo sarebbe schiavo della ragione. Basterebbe un comando dell’intelletto per far sì che la nostra emotività faccia quello che decidiamo di fare, evitandoci fatica e dolore.

Non è così inusuale criticare le nostre emozioni quando pensiamo siano sbagliate. Ma le nostre emozioni non possono essere sbagliate, esse semplicemente sono. Dirci che ciò che stiamo sentendo non va bene è come dire che il colore dei nostri occhi è sbagliato. Potremmo preferire gli occhi azzurri, verdi o dorati, ma averli marroni non ci dice che ci sia qualcosa che non va.

Quando cerchiamo di convincerci che il nostro dolore non conta o non ha senso, impediamo a noi stessi di essere quello che siamo; semplicemente umani.

Penso che sia proprio qui il punto di maggior lotta con noi stessi; a qualche livello soffriamo proprio perché non ci permettiamo semplicemente di essere. Magari siamo anche stanchi di ricominciare ogni giorno a raccontarcela, soprattutto ogni volta che abbassiamo la guardia e il dolore si palesa sempre lì, dove lo abbiamo lasciato. In quei momenti cediamo brevemente all’idea che forse sì, dovremmo farne qualcosa di questo dolore, ma le alternative sembrano troppo terrificanti.

Come se lasciar uscire tutto significasse perdere il controllo e rovinare quel poco di buono che abbiamo.

E per che cosa? Per queste stupidaggini che sento e che non so neppure da dove vengano? Ho una famiglia che non mi fa mancare nulla, sono in salute, ho un lavoro. Dovrei essere felice, allora perché non lo sono? Il mio non è un problema, mi sento uno stupido pensando a tutta la gente che DAVVERO sta male. Che cosa non va in me?

Coloro che hanno preso l’abitudine di negare, evitare, intellettualizzare e intorpidire il dolore, perdono la spinta a guarire, riparare o migliorare.

Tutto ciò che aiuta a ottundere la sofferenza o che ci dia l’illusione di evitarla, diventa risposta automatica al nostro bisogno di sentirci meglio (abuso di droghe, abbuffate di cibo, giorni interi sui social) portandoci in circoli viziosi che ci bloccano in situazioni sempre più dolorose (date dal senso di colpa, dal senso di inutilità e d’impotenza, dal risentimento poiché nessuno ci aiuta, rabbia), creandoci abitudini che diventano prigioni.

A volte, arriva un paziente nel mio studio che afferma di non avere la più pallida idea del perché si senta come si senta; per scoprire poi che non solo lo sa eccome, ma che, magari, ha passato metà della sua vita a seppellire tutto questo, considerandolo davvero non degno di nota.

Di che cosa abbiamo paura? Che cosa crediamo che potrà accadere se lasciamo un po’ di spazio a quello che proviamo? Rovinerò la mia vita? Cadrò in depressione? Perderò la testa definitivamente? Farò cose di cui poi mi pentirò? Se iniziassi a urlare o a piangere, poi saprei smettere?

Abbiamo bisogno di prendere consapevolezza del fatto che ciò che proviamo ci appartiene e sta lì per un buon motivo; non è un nemico da far sparire, ma un amico da ascoltare.

Sentire profondamente può darci la possibilità di iniziare a guarire; mettendo in moto le nostre capacità di affrontare un evento negativo, che sono dentro di noi anche se non ne siamo consapevoli. Infatti, spingiamo via il dolore non avendo fiducia nella nostra capacità di farvi fronte: Capacità che non possiamo scoprire finché non fronteggeremo apertamente quello che disperatamente vogliamo evitare.

Allora, abbiamo bisogno di fidarci dei nostri vissuti, di ciò che sperimentiamo, per dargli un senso e, finalmente, per ascoltare e prendere sul serio i nostri dilemmi interiori.

Il senso di colpa è spesso verso noi stessi; quando tradiamo i nostri stessi valori, la colpa serve a spingerci ad agire secondo questi e solo ciò può sollevarci da essa.

La vergogna, riguarda il fallimento e l’inadeguatezza; e solo rivalutare, ripensare e moltiplicare l’impegno può portarci ad ottenere ciò che sentiamo di desiderare.

L’ansia è la minaccia di qualcosa di negativo che non crediamo che saremo in grado di fronteggiare; allora, possiamo cercare di capire che cosa può effettivamente succedere e che cosa sarà in nostro potere fare al riguardo.

Le emozioni dolorose hanno in loro stesse gli ingredienti utili a migliorare le cose. Quando le usiamo a tale scopo, prosperiamo, quando non lo facciamo, soffriamo.

Questo non significa che sia facile affrontarle e farne qualcosa, o che ciò dipenda solo dalla nostra volontà; tutt’altro. Per volere e potere, dobbiamo prima conoscere e comprendere. Solo così sapremo di che cosa abbiamo realmente bisogno e potremo capire che cosa fare per produrre un cambiamento.

“Sono stata emotivamente abusata e rifiutata sin da quando ero piccola. Mi è stato detto da sempre che ogni problema, tutto ciò che non andava, era colpa mia perché priva di valore e inadeguata. Ho imparato che ero un peso per tutti. Non potevo chiedere l’aiuto che disperatamente desideravo perché pensavo che fosse l’unico modo per non provocare altro dolore e proteggere tutti da me, dai miei insignificanti problemi e lamenti. Poiché credevo di non valere niente, mi sono incastrata in una relazione abusante e ho iniziato a bere per non sentire. Penso di essermi identificata nel ruolo di vittima impotente e che ero ossessionata da questo in qualche maniera distorta, ma non credevo alla possibilità di poter scegliere diversamente finché non sono diventata adulta. Solo con la psicoterapia ho capito che il mio dolore conta e che devo prendermene cura; ho realizzato anche che farla finita non avrebbe reso il mondo migliore. Che io valgo a prescindere, ma che sono io a dover dare forma a questo valore affinché possa dare qualcosa a me e anche agli altri. Quando ripenso a come mi vedevo, mi si stringe il cuore. Come ho potuto credere che il mio dolore non contasse? Come ho potuto pensare che la mia vita non valesse nulla? Piango pensando a tutto il dolore che avevo sepolto, al male che continuavo a farmi da sola. Mi chiedete da dove iniziare? Maneggiatevi con cura e non perché siete fragili, ma perché siete preziosi.”

E voi, che cosa ne pensate? Quale vostro dolore sarebbe ora di ascoltare?

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