Dire Addio

Dire Addio
Con ogni addio impari.

E impari che l’amore non è appoggiarsi a qualcuno

e la compagnia non è sicurezza.

E inizi a imparare che i baci non sono contratti

e i doni non sono promesse.

Jorge Louis Borges

Quanti addii ci siamo ritrovati ad affrontare nella vita, quante separazioni, quante ultime volte? Ci separiamo da persone, luoghi, ma anche da cose, ricordi, abitudini e pensieri. Quello che prima era la nostra normalità, un giorno smette di far parte delle nostre vite.

Dunque, dovremmo essere dei campioni a dire addio, giusto?

Un fatto essenziale da cogliere nel regno dell’ansia e del dolore, è che per la psiche umana non c’è molta differenza tra morte simbolica e morte reale.

Una morte reale è quella che avviene nel mondo concreto, quando, per esempio, un nostro caro viene a mancare. Una morte simbolica riguarda tutto ciò che muore dentro di noi in relazione a qualche transizione di vita, che può anche non riguardare una morte reale.

Entrambe le situazioni creano ansia esistenziale; ci costringono a contemplare il fatto che ogni cosa deve finire e richiedono il completamento del processo di lutto per poter tornare a sentirci nuovamente completi, anche se diversi.

Ad esempio, avviene una morte simbolica quando dobbiamo dire addio ad un luogo che chiamavamo “casa” e che ad un certo punto non può esserlo più (il quartiere dove siamo cresciuti, la città dove siamo andati a studiare ecc..).

O, ad esempio, quando una relazione finisce decretando la morte di tutto ciò che intorno ad essa avevamo internamente alimentato (progetti, aspettative, sentimenti).

Le transizioni della vita, però, riguardano le conclusioni quanto gli inizi e il buono quanto il cattivo. Anche un matrimonio decreta una transizione; positiva sì, ma che comunque richiederà necessariamente un addio a qualche cosa che prima identificavamo come parte della nostra identità (come l’essere nubile o celibe, per esempio, per lasciar posto all’esser moglie o marito).

Gli addii, dunque, comportano degli strappi alla nostra identità; con ogni addio, perdiamo una parte di noi, così che ogni volta che ne viviamo uno, sperimentiamo quel senso di disintegrazione che quasi diventa un assaggio della nostra stessa futura fine.

Nessuno stupore, quindi, per la nostra avversione nei confronti degli addii.

Quasi a nessuno, infatti, piace dire addio, ma per alcuni di noi è praticamente impossibile perché motivo di grande angoscia. Ogni cosa deve finire o viene perduta, per scelta o per caso, per necessità o per “destino”; il nostro giocattolo preferito, un luogo, una persona cara, un libro. Pur essendo cose molto diverse, ogni fine lascia un senso di angoscia e smarrimento che non sempre siamo in grado di affrontare.

Quante volte per non dire addio ci siamo tenuti cose, persone o situazioni che non andavano più bene per noi?

Quante volte siamo arrivati a temere di affezionarci e legarci, sapendo che quel momento doloroso inevitabilmente arriverà?

Ogni cosa per noi significativa, diventa parte di noi; separarcene, in definitiva, significa proprio sentirci privati di qualcosa che, irrimediabilmente, lascia un vuoto.

“Ero in gita in campagna e casualmente il nostro gruppo si imbatté in un altro; noi avevamo una bottiglia di vino, ma nessun apribottiglie e loro avevano l’apribottiglie, ma nessuna bottiglia da aprire e la cosa ci fece tanto ridere. Decidemmo così di pranzare insieme e proseguire la giornata verso la stessa meta. La conoscenza più curiosa della giornata fu quella che feci con una bambina di 4 anni, Giada, che mi prese particolarmente in simpatia, tanto che mi camminava sempre vicino facendomi un sacco di domande sulla natura e sulla vita; cosa che, secondo il padre, non era così usuale. Verso la fine della giornata, quando le prime luci del tramonto iniziavano a colorare il cielo di rosso, mi resi conto che Giada sembrava angosciata. Sapevo che era consapevole che il nostro addio stava per arrivare. Così, la presi in braccio, e lei mi abbracciò fortissimo di rimando dicendo: “Solo perché una cosa deve finire, non significa che sia stata meno bella!”.

Ecco, fu in quel momento che pensai che una bambina tanto piccola ne sapeva molto più di me sugli addii. Ci salutammo con l’ultimo raggio di sole che moriva in cielo, ma con un nuovo calore nel cuore.”

Non siamo immortali, niente può restare lo stesso per sempre e, a poco a poco, ci separiamo da ogni persona e ogni cosa che ci è cara, finché non perderemo anche noi stessi.

Quando ci concentriamo sull’idea di crescita umana, l’immagine è piuttosto “rose e fiori”. Tutto è espansione, è muoversi verso un obiettivo, è aumentare il senso di auto efficacia ed è l’orgoglio del progresso. Ma se ci prendiamo un momento per valutare tutto il cammino compiuto finora, ci rendiamo conto che ciò che eravamo è svanito per sempre; non potremo mai tornare in un preciso posto, a quel dato momento. E questo non può che indurci un senso di perdita.

Ma il cambiamento non è solo un’avversità da temere, è anche un amico da accogliere poiché senza di esso la crescita sarebbe impossibile e senza questa, l’autorealizzazione – cioè il compito principale di ogni essere umano – ci sarebbe preclusa.

Autorealizzazione, crescita, cambiamento e lutto, cioè, non esistono in compartimenti stagni. Sono interdipendenti, ognuno ha bisogno dell’altro o sono l’esito l’uno dell’altro.

Ogni momento di divenire è un momento di cambiamento e mentre diventiamo chi realmente siamo, siamo chiamati a lasciar andare chi eravamo.

Perciò, se il nostro compito principale nella vita è quello di diventare chi sentiamo di poter diventare, dobbiamo accettare che l’unico mezzo per arrivarci è la crescita, la quale implica cambiamento e quindi un lutto, tanti lutti, tanti addii.

L’alternativa è l’immobilità, la stagnazione, che non è una cosa buona poiché le persone e le cose intorno a noi cambiano in ogni caso, sia che decidiamo di attivare il nostro potenziale, oppure no.

In quanto organismi biologici legati inestricabilmente al mondo naturale, soccombiamo alla morte fisica senza alcun potere al riguardo. Il potere che invece abbiamo è quello di rifiutare di soccombere ad una morte simbolica, per accoglierla invece e permettere che il suo potenziale trasformativo si compia; per continuare a puntare sulla nostra crescita e realizzazione, per muoverci più avanti possibile con il tempo che abbiamo e, magari, compiere il nostro destino.

Proprio come per la morte fisica, anche in quella simbolica abbiamo bisogno di far quadrare il cerchio, di chiudere il ciclo, di mettere la parola fine; attraversando il processo di lutto per evitare di ritrovarci in quel limbo psicologico ed emotivo che ci impedisce di andare avanti per come dovremmo.

Perciò, dire addio è importante. Dire addio ci permette di ritagliare quel tempo utile a onorare l’importanza di ciò che esce dalle nostre vite. Ci dà l’opportunità di formare parole che possano dare un senso ai nostri sentimenti di perdita.

Tutto questo, potrebbe servirci anche ad apprezzare molto di più quello che abbiamo oggi – proprio perché sappiamo che non potrà essere per sempre – e insegnarci a ricordare con gratitudine, invece che seppellire per evitare di soffrire.

Il dolore degli addii, dunque, è il prezzo che dobbiamo pagare se scegliamo di vivere pienamente le nostre mortali e relativamente brevi vite.

E voi, che cosa ne pensate? A chi o a che cosa non riuscite a dire addio?

Se volete, fatemelo sapere nei commenti e se vi è piaciuto l’articolo, condividetelo!

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