Ciò a cui resisti, persiste

Ciò a cui resisti, persiste
Il modo migliore di sconfiggere un nemico è di farselo amico.
Enrico IV d’Inghilterra

Fu Carl Gustav Jung, ormai un secolo fa, ad affermare che le cose alle quali resistiamo non solo persistono, ma si ingigantiscono. Oggi, questo può servirci per focalizzare la nostra attenzione su una mossa apparentemente controintuitiva che, invece, alla lunga, può portarci il cambiamento tanto sperato.

Intanto è necessario dire che, psicologicamente parlando, resistenza e risoluzione si trovano agli antipodi. Resistere riguarda fondamentalmente il non essere in grado o il non volere avere a che fare con le esperienze negative della vita, finendo più per negarle che prenderne atto e a lottarci contro per distruggerle, senza darsi la possibilità di comprendere e accettare quello che sperimentiamo.

Resistere, infatti, non fornisce alternative; non cambia ciò a cui resistiamo, anzi, lo alimenta proprio perché mentre opponiamo resistenza a quella che è la nostra realtà, finiamo per prenderne le distanze. Il centro del nostro mondo diventa il problema di cui non possiamo fare altro che lamentarci, risentirci o cercare di combatterlo.

Non solo la resistenza può prendere diverse forme, ma può applicarsi a diverse situazioni. Per esempio, potrebbe aver a che fare con il resistere ad un trauma del passato che non si è mai potuto risolvere da solo. Focalizzare su di esso la nostra attenzione potrebbe inizialmente sembrare pericoloso e troppo doloroso; è naturale credere che riportare in superficie certe sofferenze possa non solo farci male, ma magari anche peggiorare le cose.

Tale posizione difensiva è dunque comprensibile, ma aiuta solamente a perpetuare gli stessi vecchi pensieri e sentimenti su noi stessi e sugli avvenimenti della nostra vita che vengono, di solito, esagerati e distorti negativamente, impedendoci di acquisire nuove consapevolezze su di noi e sul mondo.

Dunque, opporre resistenza ci prosciuga delle nostre energie e ciò che è peggio, non ci porta risoluzione. E che fine fanno la nostra autorealizzazione, i nostri obiettivi, la ricerca di noi stessi, se siamo completamente assorbiti dal tentativo di evitare il dolore, la sofferenza e tutto ciò che non vogliamo?

La felicità è la funzione dell’accettare ciò che è così.
Werner Erhard

Siamo prevalentemente abituati a mettere il bene da una parte e il male dall’altra e di cercare di fare lo stesso dentro di noi. Ciò che è buono è benvenuto, ciò che è cattivo va combattuto ed esiliato. Invece, avremmo bisogno d’imparare ad accettare le cose per come sono e, paradossalmente, proprio questo ci metterebbe nella posizione di poterle cambiare e poi di lasciarle andare per proseguire oltre.

Imparare ad accettare le cose per come vengono può darci la libertà di porre la nostra attenzione anche su altro, mentre aiutiamo il dolore a seguire finalmente il suo corso fino ad appassire e scivolare via. E anche se non sparisse, accettare ciò che prima era inaccettabile ci permetterebbe di allentare lo stress che tutto ciò ci causava -o meglio, che ci causavamo da soli.

Allo stesso tempo, l’idea di imparare ad accettare anche il male della nostra vita non deve suonare come un invito ad adottare un atteggiamento rinunciatario di fronte a quello che ci sembra ingiusto, ma più che altro che sia un invito a non lottare contro noi stessi.

Ad esempio, pensate ad un bambino che viene chiamato stupido dai genitori quando commette un errore e che per questo prova una profonda vergogna. Tanto intenso è questo sentimento che il bambino passa la sua vita cercando di non risperimentare tale umiliazione e perciò evita tutte quelle situazioni in cui rischia di essere giudicato come stupido. Addirittura, una volta adulto, rinuncia a perseguire il desiderio di pubblicare il suo libro pur di evitare qualsiasi rischio. Egli si oppone a questi sentimenti distruttivi senza darsi la possibilità di ripensarli, contestualizzarli, dargli un senso nuovo. Resistendo, non li affronta, non li mette in discussione, li mantiene congelati nel tempo come se quell’umiliazione fosse accaduta il giorno prima e in qualche modo, in effetti, lo è. Riaccade ogni giorno nella sua testa, ogni volta che il dolore bussa alla porta e lui si ostina a tenerla chiusa con tutte le sue forze.

Se venissero a bussarvi alla porta perché non avete pagato una bolletta, far finta che non siete in casa farebbe decadere il debito? Non solo la risposta è no, ma si aggiungerebbero anche gli interessi, giusto? Ecco, in questo caso le cose non sono così diverse.

Senza decidere consapevolmente di prendere atto di ciò che proviamo per affrontarlo, rischiamo di pagare un prezzo tutt’altro che irrisorio, finendo per identificarci con questi sentimenti irrisolti e di sentirci noi stessi un problema, facendo ruotare tutta la nostra vita intorno a ciò che cerchiamo di combattere.

Dunque, non solo investiamo energie preziose per evitare ciò che è in agguato dentro di noi, ma questo sforzo è anche inutile. Le cose che non sono state risolte nella nostra mente non se ne andranno solo perché cerchiamo di ignorarle. Bloccate al nostro interno esse continuano a circolare e a bussare con forza, a volte trovando anche altre strade per farsi sentire (ad esempio, sul corpo, con sintomi psicosomatici).

Il prezzo da pagare, insomma, diventa sempre più alto e il dolore di partenza viene trasformato in questo modo in una sofferenza sempre peggiore, tenuta in vita perché solamente rimandata.

Tutti noi siamo messi di fronte alle circostante avverse, ma è la nostra fuorviante resistenza -seppure comprensibile- a causarci tanta sofferenza, non gli eventi di per sé.

E voi, che cosa ne pensate? Quale porta sarebbe per voi il momento di aprire?

Se volete, fatemelo sapere nei commenti e se vi è piaciuto l’articolo, condividetelo!

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